lunedì 28 novembre 2011

Il progetto della Roma? Una nave pirata...


La Roma non sa fare il salto di qualità. La Roma rimane adolescente. La Roma non cresce. La Roma soffre di vertigini.

Ma ne siamo proprio certi? Siamo sicuri che il nostro principale problema sia non riuscire a prendere questa benedetta maturità?

Perché la vertigine non sarà paura di volare, ma nemmeno voglia di strusciare il mento sull'asfalto. E poi come si fa a soffrire di vertigini quando da inizio stagione si vive al secondo piano in 50 metri quadri con vista sul cortile?

La verità è che il progetto Roma non è nemmeno paragonabile ad un aereo, ma molto più simile ad una nave. Quella Pirata del Luna Park. Un'altalena, di risultati e emozioni.

Quando si va in alto si è felici e ci si sente padroni del mondo, ma quando si imbocca la discesa non si sa mai quando terminerà e soprattutto quanto in basso ti porterà.
L'impressione è che il movimento della barca non siamo noi a deciderlo, ma una forza esterna, indipendente dalla nostra volontà. Decisa probabilmente dalla voce fuori campo che ci racconta quello che sta accadendo, su un sottofondo di musica da discoteca. La stessa sulla quale Armero e Isla, ballando, hanno festeggiato il 2-0 dell'Udinese, prendendosi gioco del nostro divertimento.

Se almeno la barca affrontasse le onde per arrivare da qualche parte, potremmo farcene una ragione.
Se sapessimo che tra mille difficoltà, l'inevitabile balia dei venti, la lenta, desiderata e sospirata spinta del mare, alla fine il porto, anche dopo mesi, sarebbe il nostro definitivo approdo, allora potremmo anche goderci il viaggio. Sapendo che tanto è più lunga l'attesa, tanto più grande sarà il risultato.

Macché: il movimento della nostra nave pirata è solo un'impressione. Un gesto meccanico, identico e uguale, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Un'ondulazione che oltre al mal di mare, non porta nient'altro.

Preferiremmo un passatempo più statico. Non necessariamente all'interno di un ring.

venerdì 25 novembre 2011

Semplicemente Il Migliore. The Best. George Best


Quando si vive sempre di corsa, senza un domani, come fosse un eterno, infinito presente, il minimo che può succedere è di arrivare al traguardo senza nemmeno accorgersene.

Un dribbling immortalato sulla copertina di un tabloid patinato. Questa la vita di George Best. Solo colpi ad effetto, sole prime pagine. Solo numeri da fuoriclasse.

I compagni di squadra provano ad affermarsi Premier League e in Europa? Lui a soli 22 anni alzava praticamente da solo la Coppa dei Campioni e vinceva il Pallone d'oro.

I calciatori si sposavano con donne bellissime? Lui aveva al proprio fianco Miss Mondo.

In Inghilterra scorrevano fiumi di alcool? Lui si ubriacava tutte le sere, dormiva sul lettino dell'infermeria e arrivava al campo di allenamento con una pelliccia di visone e un sacco pieno di sterline.

Il mondo provava a comprendere il fenomeno Beatles? Lui ne divenne parte, il quinto Beatles lo chiamavano, e non per i capelli lunghi o i basettoni, ma perché quando correva in campo lasciava una scia di musica. Di rivoluzione.

Primo in tutto, dal trasferirsi in America, nella Major League, pur di non vestire una maglia diversa da quella del Manchester United, allo smettere di giocare a calcio a soli 29 anni. E' stato anche il primo ad andarsene.

Sei anni fa. Nessuno addio doloroso o rumoroso. Se n'è andato come si lascia una festa. Improvvisamente. Senza nemmeno salutare. Lasciandoti appoggiato alla parete, drink in mano, a ripensare a quanto era simpatico e affascinante quel tipo con una maglia rossa a maniche lunghe tirata oltre le dita. A sorridere dei suoi numeri.

"Ho speso tutti i miei soldi in alcool, donne e automobili veloci. Tutto il resto l'ho sperperato". Semplicemente il migliore. The Best. George Best.  

lunedì 21 novembre 2011

Roma non fare la narcisa. Non affogare specchiandoti...


Non per fare facili parallelismi con la politica, ma in Italia e soprattutto a Roma sembra essere un ottimo momento per la sinistra. La fascia, ovviamente.
Il solito scuotersi di ampolle e sbuffare di alambicchi attraverso i quali Luis Enrique, il piccolo chimico asturiano, schiera il suo undici titolare, delle volte ha il pregio di azzeccare le scelte. Quelle che poi, al novantesimo, ti accorgi che hanno un peso specifico enorme sul risultato finale.
Una di queste è l'idea di inventare Taddei terzino sinistro. L'out mancino, terra di conquista per quasi tutti gli avversari giallorossi, non solo appare blindata come la zona verde della Roma ecologica domenicale, ma si trasforma in una Cassiopea di occasioni da gol. Non a caso l'1-0 di Pjanic arriva proprio da un cross di Taddei, ma anche le altre principali azioni da rete: molte sprecate da Bojan.

Proprio la prestazione del folletto ex Barcellona, appare iconografia perfetta delle mancanze giallorosse. Una in particolare: il cinismo. Il risultato maturato durante la gara contro il Lecce è stretto solo per la poca concretezza sotto porta.

Certo. C'è un gol di Osvaldo che grida, in maniera quasi straziante, vendetta, ma per questo bisogna chiedere spiegazioni al guardialinee Carrer. La parola più nominata nella Capitale in questo lunedì di novembre.
Dopo quello di Meggiorini un altro meraviglioso gol in rovesciata contro il Lecce, regolarissimo, viene annullato.

Udinese, Fiorentina, Juventus, Napoli e Bologna. I prossimi trenta giorni saranno lo specchio, capace di riflettere il futuro della nostra stagione. La speranza è che questa Roma non sia tanto narcisa da ammirare la propria bellezza nel lago e morire anneggata. Non sarebbe un suicidio, ma un omicidio. Quello di un'annata che rischia, suo malgrado, di tramutarsi in qualcosa di importante.

mercoledì 9 novembre 2011

Reja contro Lucho. Uno è lento, l'altro rock


Uno è lento, ma è in testa alla classifica. L'altro è rock, e sempre nella bufera delle polemiche. Uno è l'allenatore più vecchio ad aver conquistato il primato della Serie A, l'altro, dopo l'esonero di Sinisa Mihajlovic è l'unico tecnico straniero rimasto nel massimo campionato italiano.

Diversi in tutto Edy Reja e Luis Enrique, sembrano aver scelto, non a caso, due delle panchine più distanti del mondo calcistico: per rivalità e mentalità.

Da calciatore Reja ha giocato sempre per squadre di secondo piano, come Spal, Alessandria e Palermo, chiudendo addirittura con i dilettanti del Molinella e vivendo una carriera molto meno importante rispetto ai compagni che con lui avevano seguito l'iter delle giovanili, Fabio Capello su tutti.

Luis Enrique, al contrario, ha vinto tutto quello che c'era da vincere e da protagonista. Partito bambino dallo Sporting Gjon, ha giocato per le due squadre più blasonate della Spagna: il Real Madrid e il Barcellona, partecipando a manifestazioni importantissime. Ha disputato tre mondiali di calcio, tre europei, un'Olimpiade, conclusa con un oro, diverse Coppe Uefa e Coppe delle Coppe. Senza contare le presenze in Champions League. Ha lasciato nel 2002 al massimo della condizione atletica e fisica, scegliendo la famiglia e il surf in Australia alla fatica degli allenamenti, dedicandosi completamente alla maratona e allo spaccaossa: una corsa in moto nel deserto africano.
La chance per fare l'allenatore gli arriva solo sei anni dopo nel 2008: Lucho è a Firenze per provare a battere il suo record nella corsa, quando il Barcellona che ha promosso Pep Guardiola in prima squadra, lo chiama per allenare la formazione B. Resterà in blaugrana tre anni, prima di passare alla Roma, in Serie A.

Edy Reja, invece, è partito dal basso. Proprio dal Molinella in Serie D, formazione con la quale aveva chiuso la sua carriera da calciatore nel 1979, anno in cui Luis Enrique, comincia ad indossare la maglia dei Giovanissimi dello Sporting Gjon.
Allena in tutte le categorie, raggiungendo la promozione in Serie A sul campo nel 1997 con il Brescia. Ci riuscirà altre tre volte: con il Vicenza nel 2000, il Cagliari nel 2004 e il Napoli nel 2007. Proprio alla guida dei partenopei sarà esonerato nel 2009, costretto a ripartire dalla Croazia e dall'Hajduk Spalato per ritagliarsi uno spazio nel calcio conta. Nel Gennaio del 2010 lotito gli affida la Lazio disastrata del dopo Ballardini per provare a rimetterla in moto. Ci riesce, in poco meno di due anni, la porta ad un passo dalla qualificazione in Champions League e poi al primato in classifica sebbene con una gara in più.

Oltre che nella storia della loro carriera Reja e Luis Enrique sono diversi anche nel modo di giocare. Nell'età delle loro squadre.
La Lazio è una squadra esperta, per non dire vecchia, che fa del contropiede la sua arma migliore. Cinica, che sa accontentarsi del pari, quando ce n'è bisogno.
La Roma è una squadra giovane, per non dire svagata, che ha nella sua qualità migliore anche il suo punto debole: il giocare sempre all'attacco, contro qualsiasi avversario,.

Ecco, magari se riuscissero a rubare l'uno qualcosa dall'altro probabilmente ne gioverebbero entrambi. Cosa impossibile, visto il carattere acceso dei due protagonisti. Nel frattempo si sono sprecati i paragoni: è il tecnico più vicino a Maestrelli, si dice nell'ambiente biancoceleste. Ricorda il primo Eriksson, rispondono da quello giallorosso.

La verità è che Reja e Luis Enrique non hanno sosia. Sono così come sono. Prendere o lasciare. Uno è lento e l'altro è rock. Generi che hanno appassionati diversi.

lunedì 7 novembre 2011

La magia delle cose semplici


L'insostenibile leggerezza delle cose semplici. Perché in fondo non c'è gusto a fare in campo, quello che si è provato a Trigoria. Manca la sorpresa. Manca la passione. Soprattutto quella della tifoseria, costretta al solito sabato di sofferenza.

Perché mettere in campo la formazione migliore, quella più naturale, quando puoi soffrire per un'ora, mostrare una sterile supremazia territoriale e poi rischiare di prendere gol sulla solita maledizione del calcio d'angolo che ci perseguita dal dopo-Capello.

Dov'è la suspance, il famoso coupè de theatrè? Non è divertente mettere al sicuro il risultato il più rapidamente possibile. Bisogna attendere gli ultimi venti minuti, sistemare la squadra come la logica vorrebbe e segnare due gol. Allora sì che c'è gusto ad esultare.

In fondo il calcio è semplice: schierare i giocatori al proprio posto, a fare le cose che sanno fare, migliora la prestazione e avvicina al risultato.

E' evidente che la semplicità non sia del tiqui-taca o della filosofia calcistica di Luis Enrique. O meglio, è evidente che bisogna prima complicare le cose e poi provare a semplificarle. Probabilmente il segreto è tutto qui e c'è chi, ingenuo, ancora non l'ha capito.

La gara di Novara ci ha portato qualcosa di molto vicino al terreno del Silvio Piola. Tre punti sintetici. Belli e utili, per carità. Ma per la naturalezza bisogna aspettare.