giovedì 12 gennaio 2012

Lionel Messi, il calcio fatto persona. Ma non lo si può spiegare...

Spiegare Lionel Messi sarebbe come tentare di spiegare la gioia che si prova nel vedere un pallone rotolare lungo un prato verde. Se per la gara di un Mondiale o per una semplice scampagnata tra amici, non ha importanza. Quando una sfera si mangia in velocità il terreno, che sia di erba, pozzolana o asfalto, produce una sola sensazione: felicità.

Chi non ama il calcio non può capire. Come spiegare a qualcuno che non ha mai annoverato il pallone tra le proprie fedi (esatto, non passioni!), che esistono diversi modi di esultare e diversi tipi esultanze? Si può gioire per un gol della propria squadra. Per quello di un'altra su un campo differente. Addirittura per quello di un giocatore di una formazione avversaria, che non ha mai vestito, e probabilmente mai vestirà, la tua maglia.
E' impossibile farlo. Come cercare di spiegare Lionel Messi.

Guardando giocare il talento argentino, si ha una sola impressione. Che a tratti sfiora addirittura la blasfemia. Messi è il calcio fatto persona. E non lo diciamo forti del fatto che il fantasista blaugrana ha raggiunto, in soli dieci anni di carriera (otto ad alti livelli) il suo terzo pallone d'oro consecutivo. Impresa, in passato, riuscita solo ad un certo Michel Platini. Uno che, non a caso, chiamavano Le Roi, il re. Ma perché la sua storia, come quella di ogni predestinato, sembra avere un motivo preciso in ogni istante. Somigliando più ad una fiaba, che ad una leggenda.

Messi comincia a giocare a calcio a cinque anni, nel Grandoli, la squadra allenata dal padre. E' il più piccolo della rosa, ma anche il più forte. Tre anni dopo passa al Newell's Old Boys. Tocca la palla come nessuno e, nonostante la sua statura, salta avversari come birilli, meritandosi il soprannome di Pulga, la pulce. Epiteto che non lo lascerà mai.
Messi segna. Segna ancora. E se può, lo fa di nuovo. Così come qualche osservatore, che allo stesso modo continua a segnare il suo nome su un taccuino. Un numero talmente alto di volte, da rendere necessario un provino. E' partita la caccia al nuovo Maradona. Tutti i più importanti club argentini vogliono strappargli un contratto.

Come spesso accade, però, il sogno vira improvvisamente, tramutandosi in incubo. Il ragazzo non cresce e i genitori cercano di capirci qualcosa in più. Gli viene diagnosticato l'ipopituitarismo, tecnicamente una deficienza di secrezione di somatotoprina. Il rischio concreto è il nanismo. Servono cure costose e immediate. La folla che sarebbe stata pronta a tutto per accaparrarsi il nuovo fenomeno, si fa da parte. Compresi River Plate e Boca Juniors. Rimane in piedi una sola strada. La più folle e dunque anche la più percorribile. Quella che porta in Europa. E' il Barcellona a credere in lui, caricandosi di tutte le spese: il cartellino, il trasferimento, suo e della famiglia, e le necessità mediche. Messi approda in Spagna e firma il suo primo contratto in blaugrana il primo marzo 2001. Su un tovagliolo, sul cofano della macchina del ds Carles Rexach.

Il resto è storia di oggi. E lo racconta una bacheca, talmente piena, da sembrare colma. Salvo poi, ogni anno, trovare spazio per qualche altro trofeo. Cinque campionati spagnoli, una Coppa di Spagna, cinque Supercoppa di Spagna, tre Uefa Champions League, due Supercoppa Europee, due Mondiali per Club, un oro Olimpico e un Mondiale Under 20. In mezzo tanti di quei titoli individuali da mettere i brividi.

“Non sarà mai come Maradona. Pele. Cruyff. Van Basten. Ronaldo. Totti”. Come termine di paragone, metteteci chi vi pare. Il senso non cambierà. Avranno ragione tutti. E nessuno.
Questo è l'ennesimo lato bello del calcio: chiunque può parlarne, senza timore di smentita. Il pallone è lo sport più popolare che esista: bastano due sassi e una sfera di cuoio e si può dar inizio alla festa. Nessun'altra attività potrà somigliargli. Provate a giocare a basket, o a tennis, oppure a pallavolo con le sole cose che avete indosso. Non ci riuscirete mai.
Il calcio è bello. Così come lo è Lionel Messi. Ma come capirlo, se non lo si vive sulla pelle?

Un'enigma, però, il talento argentino sembra averlo risolto. E con grande facilità. Come può un ragazzino nato piccolo e condannato a restarlo per l'eternità, guardare tutti dall'alto al basso? Semplice. Salendo sul gradino più alto del podio. Sempre.

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